Come intervento artistico sulla parete prospiciente la saletta riunioni sita al terzo piano della sede ravennate della Ferruzzi Finanziaria, si è prevista la sistemazione di tre opere pittoriche, quasi tre finestre su un mondo artificiale, che facciano da controcanto alla finestra che si intravvede al di là della parete divisoria in vetro e che si affaccia sulla natura e sul mondo reale. Quasi naturalmente la memoria fa cadere la scelta per tali finestre sulle pitture di Bruno Lisi, ma verrebbe quasi la voglia di chiamarle porte, in onore di quelle descritte da W. Blake, aperte su un mondo di immagini surreali. Nato a Roma nel 1942, Bruno Lisi è un esponente tipico della cosiddetta “generazione di mezzo”, quella per intenderci posta tra l’Informale e il Neoespressionismo. Per questi spazi si è pensato soprattutto al Lisi dell’ultimo periodo, quello che, con una ricerca serrata e senza remore, conduce, sin dalla prima metà degli anni Settanta, una critica da artista ai fondamenti stessi dell’opera, per concentrarsi più sulla struttura della stessa che non sui dati che essa sembra voler comunicare all’esterno. Ma, si badi bene, non in termini tautologici come sembrava fare parallelamente la pittura aniconica, non cioè sugli stessi strumenti disciplinari, ma piuttosto sui fondamenti della visione, su quelle “strutture assenti” capaci però di determinare e legittimare storicamente l’opera d’arte. Per questo era necessaria una riduzione al grado zero della pittura, una riscoperta dei suoi valori primari, sino ad abbandonare il piacere stesso della pittura per pure stesure asettiche e rinunciatarie. Non è un caso allora che Lisi riscopra nell’azzeramento totale delle avanguardie sovietiche, e di quelle formaliste in particolare, il fondamento delle sue nuove ricerche. Non solo il “Quadrato nero su bianco” di Malevic ma anche le stratificate sovrapposizioni monocrome di Rodcenko costituiranno certo il punto di riferimento per un nuovo modo di fare pittura che individua nella pura spazialità della superficie pittorica non una sorta di “tabula rasa” su cui incidere e raccontare la propria visione del mondo, ma, semmai e soltanto, la non oggettività del mondo come sola finalità dell’opera sino a dimostrare come non sia poi così reale la realtà “pratica” delle cose. Tutto ciò in nome di una conoscenza pura e assoluta di ogni forma di oggettività, subordinando il colore e la struttura dell’opera a una comunicazione spirituale e di pura idealizzazione. Questa ricerca approda, quindi, nella metà degli anni Ottanta, a un acceso spiritualismo che, enfatizzando la centralità dell’opera in una sorta di propagazione cosmica della materia, costringe la stessa a disporsi secondo un respiro davvero cosmico. La stessa fioritura che accompagna il dispiegarsi sinuoso di quelle onde di propagazione sembra evidenziare l’atto magico del creare. Per un visionario come Lisi, creare è artificio alchemico, atto composito, che si compie percorrendo le meticolose e ordinate vie del lavoro di laboratorio e, contemporaneamente, quelle dell’intuizione e della saggezza della magia: “Se devo pensare all’uomo che si trasforma mi viene sempre in mente l’alchimia, scienza e magia. Anche i miei quadri sono operazioni alchemiche realizzate con materiali poveri. Da tempo preferisco l’inconscio, il magico; vivere la visione dell’assurdo possibile. Eppure non mi vergogno a dire che sento un bisogno di ordine. Lo cerco, almeno”. In questo modo Bruno Lisi arriva a trasmutare la materia o, di più, a obbligarla attraverso un’operazione maieutica a mostrarsi, a esibire la propria bellezza folgorante, con il suo smalto e la sua incisività, pur nella consapevolezza del suo inevitabile portare con sé i segni della propria distruzione. A questa patinata bellezza si uniformano le opere più recenti, impostate da Lisi a partire dal 1986, mediante un “ciclo di quadri blu”: quasi finestre sull’infinito, di straordinaria concatenazione e di emozionante respiro: “La materia esce dalla cornice e diventa spazio. Come stare alla finestra”. Nella prima serie, una sorta di inquadramento, ottenuto con una bordatura unitaria della tela, faceva irrompere la magmatica esplosione dei “grumi” di materia di varia grandezza in una specie di ribalta ideale. Nel contempo, l’esasperata frontalità del tutto alludeva a una raggelata Isola dei morti di b8ckliniana memoria, appena intaccata dalla corrosività e dall’irruenza di quei flutti o dall’infittirsi incontrollato di una vegetazione aggressiva; l’effetto finale restituiva la stessa impietosa durezza di un desertico paesaggio di Friederich che, solo più recentemente — proprio negli ultimi lavori di Lisi, nella serie “millimetrata” di paesaggi scanditi dal giustapporsi come tessere in un ideale mosaico — ha iniziato ad ammorbidirsi. Da questi lavori inoltre scaturisce, in tutta la sua vitalità, la passione dell’artista per l’affresco che per alcuni anni Lisi ha avuto modo di conoscere come restauratore. Come successione di giornate possono intendersi, allora, i montaggi di quelle maglie in cui la materia si espande, si estende e si enfatizza quasi a denunciare che la sua bellezza può essere, per lo meno, fissata dall’amore stesso per le cose, pur scoprendo in esse e svelando, simultaneamente e perfidamente, il vuoto abissale in cui potremmo precipitare se ci bastasse quell’estenuante bellezza da “sepolcro imbiancato” e non ci sorreggesse invece quell’eterna tensione dell’altrove. Con il “ciclo dei quadri blu”, con questa esplosione di “grumi” di materia, impudica e vitalistica ostentazione della materia stessa, scaturita dall’amorosa rappresentazione di Bruno Lisi, si ritorna al tema della percezione particolare del reale e, dunque, al tema conduttore degli interventi artistici operati al terzo piano della sede della Ferruzzi Finanziaria di Ravenna, tutto giocato sui diversi modi di percepire cosa sia reale e cosa no.
(testo in catalogo: “Percorsi nel moderno e nel contemporaneo Ferruzzi per l’arte”, progetto A.A.M., 1991)