Marisa Volpi: Mi dicevi che anni fa lavoravi con il bianco: questo passaggio dal bianco al colore da cosa è stato determinato? O per te usare il colore è la stessa cosa?
Bruno Lisi: Usavo il bianco non per avere un’assenza di colore, quanto per distruggerlo ed ottenerne un altro che ne contenesse l’eco e che rimandasse ad un’ambiguità di lettura in tutti i sensi, accentuandone la distanza imprecisata al di là della forma e dello spazio.
Vedo che ci sono degli elementi nei tuoi quadri, sia nella serie delle «centralità», sia dove c’è quest’onda di luce in movimento, sia negli ultimissimi che hanno una spazialità vagamente illusionistica — anche se non è un illusionismo perentorio ma un illusionismo appena accennato — che portano verso una simbologia, sia pure intuitiva e non intellettualistica. Una eco di qualcosa, perché la tua pittura si caratterizza sempre con una specie di eco — un’eco di un’eco di qualcosa che è lontanissimo e che viene captato dalla tua sensibilità.
Il simbolo è sempre presente, prescindendo dalla possibilità che si possa precostruire l’immagine simbolica. È presente a livello inconscio, di archetipo. Qualcosa che è, tuo malgrado.
È il contenuto stesso? Fisicamente e spiritualmente?
È la cosa stessa. Però non è protagonista.
Ci sono vari tipi di misticismo: un misticismo non controverso, tranquillo — si fa per dire contemplativo, e un misticismo drammatico, conflittuale. Il tuo non sembra essere drammatico. Sembra che tu approdi dipingendo ad una «pace». La tua, del resto, non è una pittura della luce vera, ma una pittura di visione.
È la grande aspirazione ad appartenere al tutto, fuori dal contingente. L’arte ci conduce, indipendentemente dagli strumenti di linguaggio che l’autore usa, lontano dal quotidiano.
Sono d’accordo con te che l’arte è un’altra cosa dal mestiere, però c’è un ovvio luogo in cui le due cose sono costrette ad incontrarsi. Dentro di noi c’è una spinta che chiamerei «sintomo nevrotico ad esprimere qualcosa»; poi c’è il «progetto» che permette a questa cosa di arrivare oltre il «sintomo», e la «professione» è il mezzo con cui ci obblighiamo a lavorare per arrivare oltre il pathos, l’eros, il misticismo ecc… Non ti pare?
Il mezzo è sempre e comunque un pretesto e un tramite che deve tendere al superamento della professionalità e dei tecnicismi vincolanti qualora essi diventino protagonisti. L’attimo magico creatore, all’interno della conoscenza nella quale il progetto si sviluppa, è la meta.
Dopo la liberazione che tu dici essere avvenuta con l’astrattismo, possiamo veramente toccare profondità maggiori, e liberamente esprimerle in accordi che non sono però in rapporto con occasioni della vita quotidiana, storica o religiosa? Altri motivi sono finiti: il realismo perché c’è la fotografia, i simboli e l’iconografia religiosa perché in crisi, e così via.
D’altra parte lo sviluppo della tecnologia scientifica sembra svalorizzare i particolari dell’esperienza.
All’arte è accaduto di perdere proprio quelle caratteristiche che la connotavano come tale. Ars = capacità di fare una cosa tecnicamente: saper far bene un vaso, un madrigale, un raccontino. Tutto questo saper far bene è stato spazzato via, e naturalmente noi ci ritroviamo con una grande emotività, magari più forte di quella dei nostri predecessori, che erano certo socialmente meno patetici. E abbiamo molti meno mezzi.
La non religiosità, in senso di appartenenza, è la nuova condizione liberatoria nel grado in cui ognuno di noi riesce a trasmettere amore nella creatività, dove l’assenza di pathos è spesso nascosta dal professionismo. All’interno di questa nuova realtà, il recupero di un sentimento d’amore credo sia il problema: sicuramente è il mio.
L’arte non è poi niente di assoluto, e il potenziale comunicativo di un oggetto è un fatto relativo creato dalla mente umana. Proprio a causa del suo limite intrinseco, il linguaggio ha, nella concretezza del vivere emotivo, psicologico, storico, filosofico ed ideologico, altrettante pedine da muovere in modo più o meno abile. Nelle tante mosse che fai trovi poi quella che si chiama arte, che non è nient’altro che il prodotto di questo sforzo di trasfigurazione che uno fa nei confronti di un materiale che non ha nessuna caratterizzazione in sé, e trova attraverso un gioco, un lavoro enorme, una forma inedita. L’uomo contemporaneo non ha però niente per farlo. Tu dici che ha la scienza, mah… la scienza… Mi dici che è importante la scienza?
Io quando parlo di scienza parlo di ideologia della scienza che non aggiunge assolutamente nulla di più a quella che è la vita del corpo ed ai suoi avvenimenti che sono avvenimenti di amore, dolore, morte e malattia: una vicenda simile a quella delle piante, degli animali, con la differenza che l’uomo ha di ciò una coscienza dolorosa. In quella coscienza dolorosa si rivela la bellezza, la bellezza della natura, della vita, della creazione artistica.
La scienza è questa enorme ed improvvisa possibilità di sapere, ciò che magari sapevamo, sapevamo da sempre, intuitivamente. Essa ci costringe ora a penetrazioni maggiori e più ampie, a riflessioni più focalizzate o meno casuali. Paradossalmente quanto più focalizziamo le cose tanto più esse ci sfuggono, rimandandoci a quella distanza imprecisata al di là della forma e dello spazio. All’affascinante ed inquietante rimando alla analisi scientifica, alla verificabilità e riproducibilità, non ci resta quindi che anteporre, non come contrapposizione, la mistica, l’illuminazione.
Un tempo hai fatto restauri di affreschi. Come utilizzi questa esperienza per dipingere i tuoi quadri?
L’affresco è la magia del colore succhiato dall’intonaco per inglobarlo e ridonarlo nella sua potenzialità astratta. È ogni volta una operazione alchemica che tento nelle mie superfici, usando tecniche estremamente povere.
Roma 24 settembre 1984
(testo scritto in occasione della mostra alla Temple University Abroad, Roma, 9-30 novembre 1984)