Bruno: Fare arte come globalità dell’esistere è, naturalmente, il diritto a questa esistenza.
Massimo: È vero. Un diritto che non è affatto ovvio, almeno in termini artistici.
Bruno: No! Tu sei limitativo. Io intendo proprio la vita materiale e la follia, se necessario, come superamento della condizione animale. Non trovo altre parole per allontanare da me l’incubo della professione e del professionismo, questi doppioni inutili e gravosi della nostra stessa esistenza.
Massimo: Hai ragione, anche io mi sento come il Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Quando spunta in cielo la fatidica parola, professionalità, mi si aguzzano i denti e mi comincia a crescere il pelo sulle mani. È orrendo e disumano e non puoi neanche dirlo qua e là con tanta franchezza.
Bruno: Se devo pensare all’uomo che si trasforma mi viene in mente sempre l’alchimia, scienza e magia. Anche i miei quadri sono operazioni alchemiche realizzate con materiali poveri. Credo che su questo piano potremmo intenderci; ho visto i tuoi ultimi disegni e quanto vai scrivendo disordinatamente.
Massimo: Basta che non ci mettiamo a fare i cosiddetti artisti-artigiani: così falsamente modesti, gelosi delle tecniche, prigionieri delle tecniche. Nulla deve darsi per scontato.
Bruno: Capisco quello che vuoi dire. Io voglio solo aggiungere che sono molto più incuriosito della scienza in generale e delle attuali accelerazioni tecnologiche. Sono affascinanti e inquietanti. Mi aiutano a essere mistico.
Massimo: Ma ora siamo di fronte ai tuoi Blu. Per me è disordinatamente importante.
Bruno: Dipingo e sono cosciente che la professione del pittore non esiste, o non esiste più almeno da un certo punto in poi, che è qui inutile approfondire. Non esiste se non altro perché sono svaniti i termini per identificarla. Il gesto, il comportamento, il simbolo… tutto o.k… eppure…
Massimo: Anche in architettura, siamo di fronte a tante tautologie. Buone risoluzioni tecniche di ciò che quella tecnica ovviamente richiede.
Bruno: In quel «ovviamente» c’è tutta l’ironia e la tragedia della cosiddetta professione. Ecco perché io parlo di esistenza tout court.
Massimo: A questo puoi aggiungere l’autocensura che ognuno compie nella scelta di una determinata tecnica. E la paranoia di codici dilatati a dismisura dai mass-media. Per i più raffinati ci sono anche le filosofie del negativo…
Bruno: Da tempo prediligo l’inconscio, il magico; vivere la visione dell’assurdo possibile.
Massimo: Io, da architetto, preferisco il mal fatto.
Bruno: Eppure non mi vergogno a dire che sento un bisogno di ordine. Lo cerco, almeno.
Massimo: Forse è la conseguenza principale, quasi inevitabile oserei dire, della tua scelta a favore dell’astrattismo.
Bruno: Non voglio essere frainteso, non sono contro l’arte figurativa; è che non voglio rimanere impantanato nell’oggetto-soggetto del mio quadro.
Massimo: È come per me, in architettura. Fare un progetto è diventato ovvio, quasi prevedibile. Non mi diverto più e l’immagine totale dell’edificio un referente ingombrante e di facile appagamento. Vorrei fare particolari su progetti di altri.
Bruno: Ti dicevo, concettualmente, a priori, ho dovuto scartare ogni riferimento realistico, anche se, lo ribadisco, ho problemi di ordine nel dipingere. E un vincolo non essere figurativi. Ma, voglio insistere su questo punto, ribadisco che fare arte per me, e per tutti credo, è vivere in maniera alternativa.., è un fatto del tutto casuale che stiamo qui parlando di pittura.
Massimo: Aggiungo qualcosa cheto scritto poco tempo fa: nessun edificio esprime più un’idea compiuta di edificio, il suo esistere è il solo dato certo (e meraviglioso); tanta è la curiosità che destano gli episodi di una qualsiasi facciata quanto il fastidio, o l’insoddisfazione, nel pensare che qualcuno l’abbia disegnata.
Bruno: Mi piace che, a questo punto, non stiamo colloquiando ma ragionando in parallelo. Si è creato un clima. È quello che volevo per la mia mostra.
Massimo: Diceva Picasso: io non cerco, trovo. Questa definizione mi sembra che adesso venga buona per tutti e due.
Bruno: Anche io voglio citarmi: credo che nella creatività, il non riuscire a prescindere dal proprio «io», con tutto quello che segue, sia la ragione della limitatezza nel «fare arte» di tutti questi seri professionisti che non riescono ad andare oltre la realizzazione, sia pure perfetta, dell’ovvio.
Massimo: Tu sai che questa tua affermazione mi ha profondamente scioccato, specie nelle ultime parole… la realizzazione, sia pure perfetta, dell’ovvio. Mi sono state fatte delle accuse, che molto mi pesano, di non fornire immagini consolanti e certe come sarebbe compito dell’architetto. Di non fornire modelli.
Bruno: In una società altamente tecnologica che riduce i tempi di intervallo tra un evento e l’altro (intervalli di riflessione e quindi di creatività) è quasi immorale fornire dei modelli. Si fanno progetti enormemente inutili che non servono praticamente a niente.
Massimo: Forse è anche colpa di questa ubriacatura per la Storia che ci ha allontanato dagli eventi quotidiani. Prima gli architetti razionalisti contavano i passi di percorrenza da una camera all’altra ora hanno ridotto tutto a un negozio di antiquariato. Lo sai che i pezzi più pregiati, sul mercato, sono oggi i mobili anni trenta? C’è come qualcuno o qualcosa che ci perseguita, alle spalle.
Bruno: È l’effetto antistorico delle grandi mostre; si ufficializzano opere che vivono nell’area del rassicurante già acquisito. L’etichettamento è violento.
Massimo: Io sono arrivato al colmo di non guardare più le riviste specializzate. A tutti è sembrato assolutamente snob, per me ovvia difesa, pensando a quanto tu hai detto prima sulla riduzione degli intervalli di tempo fra un evento e l’altro. Per mantenere integra la mia creatività, se c’è.
Bruno: Forse io sono un mistico. Forse tu sei un moralista. Di fondo mi sembra affiorare l’equivoco che fare arte sia un problema sociale. Mi dispiace, ma così non è.
Massimo: Ci devo riflettere. Ora mi toccherebbe buttare a mare quest’ultima speranza.
Bruno: Guarda che non siamo due ubriaconi. Le scelte fatte le abbiamo sofferte. Sono lì, anch’esse, a testimoniare per noi.
Massimo: Qualora fosse, ma chi è che non ha fatto delle scelte nella vita…, non è un argomento che mi appassioni più di tanto. Se dovessi rivendicare qualcosa sono solo i debiti che ho accumulato. La mia prima committente, venticinque anni fa, mi disse, di fronte al mio primo, giovanile, progetto: Ma io voglio una casa banale per essere normale. Da allora ho sempre avuto la sensazione di dover essere io a ringraziare chi mi dava qualcosa da progettare.
Bruno: Una specie di martirio laico. Ma in realtà mai come oggi abbiamo la possibilità di raccontare, evidenziare o sognare mescolando nel crogiolo i colori, i suoni, le forme, o le parole che al di là di una risposta immediata siano come semi che potenzialmente contengono la vita. La creatività espressa ma non divulgata agisce comunque lentamente, per canali fortunatamente non prevedibili e non classificabili.
Massimo: Con quel «fortunatamente» mi hai aperto il cuore. Fare qualcosa, creare, senza la pretesa di una resa né immediata, né certa, né riconoscibile. Essere incazzati serenamente. Ma, nel frattempo abbiamo dimenticato i tuoi Blu e se, e come, e perché quella materia informe diventi la cornice del quadro medesimo.
Bruno: Guarda che già io te l’ho detto. La materia esce dalla cornice e diventa spazio. Come stare alla finestra.
Massimo: Mi hai fatto fare la figura dell’architetto. Ma sono qui anche per imparare, o capire almeno. Sai, la mia aspirazione è fare un progetto, diciamo così, regolare e poi dire al committente: aspetta che, prima di cominciare, il progetto te lo cambio io, prevedendo, fin da adesso tutti i tuoi accanimenti possibili. Per i prossimi cinque anni non avrai altro da scoprire che il brutto tavolo è stato già comprato, le mattonelle del bagno si sono già rotte, nel soggiorno è già stata distesa una moquette carta da zucchero, alle pareti i quadri sono ora intonati con il colore del pavimento… Ti racconto come sei. Ti progetto il tuo disordine. Anche io voglio uscire da una cornice e diventare spazio e materia.
Bruno: Facciamoci una foto insieme.
Massimo: Prima ci vorrebbe un caffè, magari fatto da Ida.
Bruno: Oh, sì! Idaaa…
P.S. – Questo scritto è il risultato di un lungo parlare fra Bruno Lisi e Massimo Martini, trascritto liberamente da Massimo in occasione della Mostra di Bruno alla Galleria «Il luogo» nel maggio del 1986.