Da molto tempo cercavo di convincere Bruno Lisi della necessità di esporre il suo lavoro, almeno quello più recente, in luoghi “insoliti” ed in particolare in qualche domus romana, sotterranea, non contaminata dalla fruizione quotidiana, dagli eccessi di luce. Quella luce sin troppo avvolgente che ben conosce chi a Roma dalla stessa viene circonfuso, obnubilato e poi irrimediabilmente schiacciato. Ma questa vagheggiata “diversa” collocazione delle opere recenti dell’artista non era certo motivata da consolatorie ricerche di effetti speciali né tantomeno da pretese legittimazioni indotte ovviamente dalla storicità dei luoghi. E’ proprio la condizione dell’attuale percorso artistico di B. Lisi ad invocare per “necessità storica” una ritrovata dimensione ipogeica in una sorta di riappaesamento heideggeriano della sua opera, quasi a sottolineare che non soltanto l’uomo debba ritrovare la propria naturalità in un perseguito abitare “poeticamente”, ma anche che il lavoro dell’uomo debba tendere verso questa poeticità. E le opere recenti di B. Lisi, ricondotte come sono all’essenzialità di due unici materiali, il metacrilato e gli abbruniti filamenti metallici che lo animano, sembrano invocare una acquietante collocazione che le preservi dal frastuono della maggioranza rumorosa che ha ormai pervaso anche l’intero mondo del sistema dell’arte. C’è in questa rinuncia alle accensioni cromatiche da parte dell’artista, una vera e propria tensione al cupio dissolvi, quasi in un tentativo estremo di sottrarsi a qualsiasi forma di consumo e di omologazione. Gli spettrali filamenti possono anche guizzare nervosamente, imprigionati come sono nel materiale che li fissa in una dimensione di immutabilità, possono scorrere, aprirsi, offrirsi per poi negarsi, precipitare per poi riaffiorare, infittirsi quasi a costituirsi come un fascio di steli in funzione di votiva offerta di sé, per poi sparpagliarsi inesorabilmente, mossi da un vento che li ha costretti a disperdersi. Ma si tratta solo di pure parvenze: sembrerebbe di poter sconvolgere tutto solo con un soffio ed invece l’artista ne accentua la vocazione a porsi come figure bloccate, raggelate in una perseguita condizione di accademica neoclassicità. Saranno soltanto gli sprazzi improvvisi di luce in un luogo pervaso dall’ombra, dagli umori umbratili di qualche raro muschio a restituire un po’ di febbre a quelle figure dormienti. Sarà il loro farsi percorrere da subitanee lacerazioni, da squarci imprevisti ed imprevedibili di quelle tenebre in cui per vocazione amerebbero collocarsi, a ridar loro vita, ma solo per esplicitare che la vita è altrove. Come nelle fasi delle trasmutazioni alchemiche, il percorso attuale dell’artista sembra concentrarsi in quella estrema fase della nigredo che non è quella ultima ma è quella che pone le fondamenta per ripartire da capo. È un invito al “ricominciamento” dopo che si sono sfidati gli abissi, gli eccessi bituminosi del fondo, per scoprire, come sembra suggerire B. Lisi, che lo scrivere in pura perdita è l’unico modo per scrivere liberamente. Così come il fiume Alfeo che ritorna alle proprie origini, l’artista, quasi seguendo, sia pur involontariamente, le indicazioni di Roger Caillois di Trois leons de tenèbres, sembra umilmente constatare e dar voce a quell’esaurimento del senso per gli smodati eccessi della crescita del segno. Nessuna nostalgia avanguardistica quindi nell’assunzione di questi materiali “moderni”, nessuna voglia di futuro, come sembrano indicare le ricerche di Dorazio in Forma 1, che pure di questi materiali si era fatto “cantore” ma, piuttosto, un solipsistico ritrarsi meditativo dell’artista per dare un senso, che ancora fosse possibile, al suo continuare a produrre arte, contravvenendo alla retorica domanda dell’Asor Rosa di “Scrittori e popolo” quando si interrogava sul senso di fare ancora poesia per riconfermarsi nella propria convinzione di “come fosse possibile che ai poeti non si gelassero le parole in bocca”. Ebbene, oggi, B. Lisi va alle radici della modernità e sembra ritrovarla ed indicarla in quella crisi del classicismo tardo settecentesco che vede Giovan Battista Piranesi interrogarsi, nell’altare di S. Basilio in S. Maria del Priorato, su memoria del passato e necessità del nuovo. In quel confronto-scontro tra cascami rococò del tripudio del santo ed algida e cristallina bellezza delle forme pure del retroaltare, prende avvio la liquidazione della storicità a favore di una raggelata ma superba idea di modernità fondata sul “silenzio” della forma. Ed è proprio quanto sembra suggerire oggi l’enigmatica ed impenetrabile sospensione della ricerca di B. Lisi, con la sua afasia, con il suo superbo ritrarsi in una ricercata alterità. Ma non si tratta certo, da parte dell’artista, di uno sdegnato ritrarsi, quanto piuttosto di un pacato ritorno all’idea del “libro a venire”, del lavoro successivo con cui riannodare le fila, di cui la fase attuale si pone come sperimentazione dell’infinito intrattenimento. Necessario peraltro per far prendere a quei reiterati filamenti quello stesso volo per l’altrove dei fastigi terminali metallici con cui F. Borromini concludeva le sue cupole, come in S. Ivo alla Sapienza dove, come avrebbe detto C. Brandi, accade il miracolo: la cupola si disperde nel cielo con un guizzo finale fatto di poche e sinuose barre metalliche come “l’augello che prima s’avvita e poi s’arrota e lascia filamenti leggeri nell’aria”…
(testo scritto in occasione della mostra “Cristalli d’acqua”, Museo della via Ostiense, Roma, in collaborazione con AAM, 1-23 ottobre 2004)