Secondo Ludwig Wittgenstein l’unica occupazione possibile per la filosofia contemporanea riguarda il linguaggio. Se questo vale per la filosofia, senza tema di sembrare apodittici, può benissimo s riferirsi anche all’arte contemporanea.
Come in ogni sistema apparentemente chiuso, anche quello dell’arte avrà, dunque, come origine, oggetto e verosimile meta la sperimentazione linguistica dei suoi mezzi.
Nel suo celebre saggio Le degré zéro de l’écriture – pubblicato alla fine degli anni Cinquanta – Roland Barthes auspicava una sorta di nuova Rivelazione della Letteratura (auspicio paradossalmente scettico giacché confinato nello spazio dell’Utopia) che stava preparando il suo avvento mediante una scrittura che spostasse il suo gioco in campo neutro.
La scrittura – e naturalmente anche l’arte – transitava in una strada senza uscita o, quanto meno, in cui sembrava che ogni uscita le fosse preclusa. Da un lato, infatti, disponeva di un corpus di regole e convenzioni (“il mito della Letteratura”) che allontanavano lo scrittore dal presente; dall’altro qualora lo scrittore avesse voluto rendere disponibile la sua scrittura alla “freschezza attuale” del mondo non poteva valersi che di “una lingua splendida e morta”.
La tragicità e l’inadeguatezza strumentale dell’artista di fronte al mondo (all’esterno) è stata affrontata, dagli anni Sessanta in avanti, attraverso metodologie linguistiche “neutrali” che tutti conosciamo come l’arte concettuale, minimal e Pop art.
Dopo gli anni Ottanta, in cui tale neutralità si è nuovamente mescolata con i linguaggi del “passato” dando origine ad anacronistiche e inconcludenti elaborazioni, sono emerse più significative sperimentazioni che hanno cercato di rivitalizzare al neutro la splendida e morta lingua dell’arte.
Utopicamente Barthes riteneva che il problema della scrittura – dopo il suo soggiorno in campo neutro – si sarebbe risolto attraverso una superiore opera moralizzatrice che avrebbe condotto verso un “universalità” in cui scrittura e società sarebbero state capaci di convivere in modo omogeneo.
Più realisticamente e con il vantaggio del tempo, l’artista – non potendo raggiungere linguisticamente la ‘freschezza del mondo’ (ammesso che la possieda) e l’alienazione della Storia (ma è poi necessario?)- ha pensato di rafforzare l’autonomia e la differenza del proprio sistema linguistico, di riformularlo in maniera transitiva.
Nelle opere di Bruno Lisi – mi riferisco in particolar modo alla serie Segno, che va dal 1993 al 2000 – il problema linguistico si manifesta essenzialmente come ricerca dell’espressione. Espressione della forma che si costruisce o si vela; e nondimeno, in questo caso, entrambi i termini sono in realtà dei pleonasmi, giacché, nelle sue opere non vi è direzione né tracciato, bensì la deliberata volontà di rappresentazione di un movimento. Segni ed immagini, in tal modo, si sganciano da un coercitivo sistema di significazione prestabilito, senza proporsi idealisticamente come modello ma come mero apparire all’interno di un circuito linguistico da cui, non senza inquietudine, si cerca di strappare una parola a venire.
Senza perdersi nell’esuberante e nell’eccessivo, Lisi adopera la sua moderna lampada combinatoria nella quale si proietta probabilmente (nel dubbio si confina l’ambiguità dell’espressione) quell’altrove – fatto di ricordi, “giochi linguistici” e associazioni mentali – non legittimato dall’ordine razionale.
Uno degli elementi essenziali del suo lavoro sembra essere la costruzione, intesa come equilibrio tra segno e linguaggio.
Le sue opere non sono soltanto intuizioni nitide, invenzioni sottili ed essenziali da un punto di vista formale, ma soprattutto formulazioni singolari e intelligenti e caparbie affermazioni dell’autonomia dell’arte. Le cose, gli oggetti vengono separati dalle loro relazioni consuete e divengono segni, tracce che l’artista raccoglie e ricompone, creando una realtà altra, chiusa all’ordinarietà del significato, all’arroganza del senso.
Con il suo alfabeto – solido e, insieme, leggero – Lisi rivendica la possibilità da parte dell’artista contemporaneo di continuare ad esercitare, nella propria riserva metafisica, il diritto “linguistico” all’utopia.
(dal catalogo della mostra, “Opere dal 1989 al 2001”, Galleria A.A.A. Palazzo Brancaccio, 26 novembre 2001-26 febbraio 2002)