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Spazialità della passione (2) – Enrico Mascelloni

Ci sono persone che non appena le si conosce ricordano qualcun altro: qualcuno perduto in un tempo di anni e nello spazio di continenti. Cosicchè Bruno Lisi, prima di accertare se mi fosse o meno simpatico, se la sua arte toccasse o meno le mie corde strampalate e prive di ogni metodo, mi ricordò un portoghese che conobbi qualche anno prima a Maputo, in Mozambico. Si potrà allora credere che Bruno mi piacque subito perchè lo misi in relazione con un qualche amico del passato. Ma non era affatto così, perchè quel Cabral che frequentai a Maputo più per causa di forza maggiore che per altro, non mi era in fondo troppo simpatico ed anzi, a voler essere chiari sino in fondo, mi incuriosiva più per un suo costante dire e non dire, ammiccare a qualcosa per poi tacerne la sostanza, che per qualche sintonia con me o con i miei gusti.. Di Bruno credo sia senza tema di smentita la limpidezza del dire. Eppure la somiglianza con il portoghese non era soltanto fisica ed apparteneva anche ad un guardare le cose con una certa malinconica eppur sorridente distanza, e forse per qualcos’altro che ora mi sfugge. Me ne accorsi con chiarezza una sera che fui invitato a cena nella casa in cui allora Bruno viveva con sua moglie Ida. Cosicchè, guardandolo commentare i quadri e le sculture come fossero cose che non lo riguardassero più, vedendolo accanto alla sua bella moglie, risolsi senza indugi che Cabral, che in fondo non mi era mai stato troppo simpatico, era un brillante e simpatico amico che non avrei probabilmente più rivisto ma di cui avrei serbato un adeguato ricordo – in realtà serbavo più nitido ricordo di una affascinante ragazza Makonde che veniva ogni tanto a trovarlo portandogli dei cabaret di strani e vagamente amari dolci. E fu quella stessa sera che Bruno mi chiese di scrivergli qualcosa sulle sue più recenti sculture in metacrilato, che mi erano subito sembrate intense ed insiemi distanti, immateriali, astratte nel senso più pregnante del termine. La prima cosa che mi venne in mente, subito lì mentre sorseggiavamo il caffè, fu il titolo, che suona infatti così: “Spazialità della passione”.

Poi m’interessava dire di quel vuoto che è immesso nel corpo stesso della scultura: si tratta infatti del vuoto trasformato in oggetto, in forma pesante, strutturalmente incombente come può solo esserlo un blocco quadrangolare di materia trasparente. L’articolazione ritmica dei pannelli di metacrilato rimanda ad una sorta di profondità multipla scandita da quinte trasparenti: un vuoto stratificato, paradossale negazione di se stesso. Una gabbia concreta dove il colore costituisce se stesso come negazione del vuoto e parto indimostrabile di quella luce che lo assale e vi dilaga.

Il vuoto coincide con la densità insostenibile del blocco e trasformandosi in materia pesante attraversa, lungo il corso della percezione, le tappe della sua inesistenza. Tutto, in opere che sembrerebbero apologetica celebrazione del vuoto, coincide col dimostrare la sua improbabilità.

Poi mi era venuta voglia di scriver qualcosa anche dei lavori più vecchi: sembrava che Lisi fosse affascinato dalla nervosa solitudine del colore, tanto da sospendere ogni distrazione che non era capace di coincidere con la sostanza dinamica e il parossistico movimento che lo conformava. Il vuoto della tela bianca ne esaltava lo scheletro passionale, esaltava le sue fibre fittissime e scattanti come scudisci.

Solo una strutturazione del vuoto poteva sondare sino alle sue estreme conseguenze la struggente solitudine del colore, e la stessa articolazione tridimensionale nasce all’inizio su formati piccoli (non ancora in metacrilato ma in poli-propilene) dove è sperimentata l’efficacia di una nuova organizzazione spaziale del colore che sarà poi infissa nella sontuosa “invadenza” dei blocchi di metacrilato.

Così le strutture di metacrilato, oltre a essere i contenitori del colore, ne sublimano l’ironico incapsulamento, sino a proporne, nell’ultimissimo lavoro, la sua trasformazione in Natura. La spazialità della passione, che fermentava tra le pieghe del dinamismo cromatico, si offre alla paradossale straniazione del blocco trasparente trasformata in “paesaggio”: quindi accolta in una struttura sorvegliata e protetta da ogni ideologia, persino da quella ecologica. Il vuoto allora è un’astuzia della forma, che fingendo di scindersi dal colore ne è in realtà il gelido letto dove esso può manifestarsi in tutte le più imprevedibili latenze, sino a recuperare con brividi lirici insospettabili l’immagine più spremuta di tutta la storia dell’arte: il paesaggio.

Il testo terminava così e Bruno l’ho rincontrato dopo molto tempo in via del Babbuino, con Irene. Mi ha chiesto di pubblicare quel testo che gli scrissi allora in occasione di un nuovo catalogo. Gli ho detto che poteva farne quel che voleva, ma ho subito aggiunto che avrei preferito trasformarlo un pò, tanto per guardare in faccia il tempo che è passato (il tempo, se non lo si guarda in faccia, spara alle spalle).

Guardandolo con Irene ho subito pensato a come le donne siano capaci di cadenzare la vita, dandogli il ritmo della propria presenza e se necessario quello del proprio abbandono. Ho quindi ripensato a Cabral, alla sua Makonde, a Leinita che a Maputo mi dava solo numeri di telefono sbagliati, ad Ida che non ho più visto da allora. Ho acceso un mezzo toscano e mi sono incamminato verso Piazza di Spagna.

(dal catalogo della mostra, “Opere dal 1989 al 2001”, Galleria A.A.A. Palazzo Brancaccio, 26 novembre 2001-26 febbraio 2002)