Bruno Lisi debutta, appena ventenne, agli inizi degli anni Sessanta, in una incalzante stagione di trapasso dall’ormai stanco e dilagante Informale. Di lì a poco infatti si ricercheranno varie vie di uscita: da quella Pop suggerita rumorosamente alla Biennale del 1964 quando la poetica dell’oggetto esplose e dilagò dai Giardini di Castello e dal Consolato degli Stati Uniti a Dorsoduro, a quelle più insinuanti dell’arte concettuale e minimale con relative rigenerazioni costruttive e diete ferree che indurranno a risillabare elementarmente lo stesso glossario della pittura ricondotta a una regola monastica. In questo clima più flottant che flou Lisi, senza cedere ad altre o nuove mode, si orienta verso un astrattismo sobrio ma non severo, basato su un colore uniforme, di pasta sottile, dal quale emana una luminosità intensa quanto discreta.
Non so se Lisi avesse visitato la splendida e tempestiva mostra di Rothko allestita nel 1962 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ma certo per lui quella del pittore americano dovette essere una lezione, forse meglio uno stimolo ad assecondare la propria natura sostanzialmente lirica, affinando, alla pari, una prassi di meditazione, di nutriente silenzio. Da allora, pur evolvendo per cicli e serie, la sua pittura è sempre restata riconoscibile a se stessa. Una pittura che si gioca tutta in superficie ma che non potrebbe vivere senza la vibrazione continua, tecnicamente molto elaborata (non dimentichiamo che Lisi è stato esperto restauratore e affreschista) del colore-luce. Su questi spazi Lisi interviene con sobrietà. Egli è ormai un virtuoso del dipingere breve, le sue immagini spesso furtive hanno la perentoria efficacia delle apparizioni, dei versi assoluti. Una concisione che nata dal pudore del sentimento, si è via via rafforzata attraverso un quotidiano esercizio di concentrazione sicché oggi il percorso dei circuiti mentale ed emotivi scocca fulmineo, quasi in un transfert, nel gesto e nel segno-immagine. Risultati evidenti e sorprendenti soprattutto nelle opere degli ultimi due anni. Grandi tele azzurre o indaco (cieli vorrei chiamarli per l’aria luminosa che li connota) percorsi da larghe pennellate di un colore più intenso ma non meno trasparente, aereo appunto. Una o due o tre linee larghe, irregolari, che ora si posano per brevi tratti ora si allungano come se partendo da lontano dopo il protratto incontro con la superficie continuassero nella corsa lasciandone in noi l’eco. Generato dall’inconscio e fortemente intenzionato dalla ragione il gesto diventa così il soggetto del dipinto. Un gesto che invade la tela in un amplesso fecondo.
(dal catalogo della mostra, “Opere dal 1989 al 2001”, Galleria A.A.A. Palazzo Brancaccio, 26 novembre 2001-26 febbraio 200